Calo del Pil: un nuovo esproprio previdenziale

di Luigi Tedeschi
pensionati
La recessione italiana è senza sbocchi. Le legislazioni antisociali attuate su diktat europeo non potranno che renderla irreversibile. Il calo del Pil infatti decurta le future pensioni. L’abbattimento progressivo dello stato sociale, che aveva già sortito effetti penalizzanti sulle pensioni con la riforma Dini del 1995, che aveva introdotto il sistema contributivo in luogo di quello retributivo, e la successiva riforma Fornero, che ha allungato la vita lavorativa fino a 67 anni, si è reso ancor più evidente con il calo del Pil. Infatti, secondo quanto stabilito dalla riforma Dini, il montante contributivo, cioè l’ammontare dei versamenti effettuati dai contribuenti, viene rivalutato ogni anno ad un tasso di capitalizzazione calcolato sul Pil degli ultimi 5 anni.
Il Pil italiano non cresce dal 2011 e registra un decremento del 5,5 % rispetto al 2009. Quindi un Pil negativo registratosi nel 2013, dà luogo ad un tasso di capitalizzazione negativo (- 0,1927%), che determina non una rivalutazione, ma una svalutazione del montante contributivo, con conseguente decurtazione delle future pensioni. Date le fosche previsioni per i prossimi anni circa la crescita in Italia, la cui economia dovrebbe anzi registrare stagnazione se non ulteriore recessione, tali effetti, già penalizzanti, potrebbero ripetersi ed accentuarsi nei prossimi anni. Si prevede per il 2014 un decremento del Pil dello 0,4%.

Le pensioni, già colpite dalla progressiva perdita di potere d’acquisto da decenni, vengono decurtate oggi, in virtù di una legislazione varata sin dal 1995, che si rivela massimamente antisociale, i cui effetti determinano non solo la mancata rivalutazione, ma addirittura la decurtazione del capitale versato dai cittadini. Non è previsto infatti un coefficiente minimo di rivalutazione, che sarebbe stato indispensabile determinare ex lege, dato che la previdenza è una istituzione pubblica, che comunque deve salvaguardare i diritti fondamentali dei lavoratori. Con l’aggancio dei coefficienti di rivalutazione pensionistici all’andamento del Pil, viene meno infatti la stessa ragion d’essere della istituzione della previdenza pubblica, che comporta l’obbligo dei versamenti previdenziali, in quanto non sono più le leggi dello stato a determinare i criteri di calcolo dei trattamenti pensionistici, bensì l’andamento dei cicli economici. Lo stato non tutela più la contribuzione del lavoratore, ma anzi, svaluta il capitale già accumulato mediante i versamenti dei lavoratori. Lo stato ha abdicato alla propria sovranità in materia previdenziale: sono gli indici economici a determinare le sorti delle future pensioni.
Il calo del Pil finisce per contribuire alla politica di bilancio impostaci dall’Europa, determinando automatici tagli alla spesa sociale. Si invocano provvedimenti correttivi a questo effetto perverso che conduce alla decurtazione del capitale destinato alla erogazione delle future pensioni, creato attraverso la contribuzione pubblica obbligatoria. Ma non si può certo credere alla buona fede di un governo colto alla sprovvista al verificarsi di tale situazione, che non poteva non essere nota sin dal varo della riforma Dini nel 1995. Inoltre, dopo anni di recessione e decrementi del Pil, i governi succedutisi alla guida del paese si sono giovati delle progressive riduzioni del tasso di capitalizzazione sul montante delle pensioni, quali tagli occultati ed impliciti della spesa pubblica. Del resto, queste decurtazioni producono effetti conformi ai provvedimenti (suicidi per l’Italia), suggeriti dalla commissione europea circa programmati aumenti delle aliquote IVA e del FMI che invita l’Italia a effettuare ulteriori revisioni al ribasso della spesa previdenziale, qualora non venissero rispettati i parametri europei del deficit / Pil al 3%, il fiscal compact, il pareggio di bilancio.
E’ stata inoltre introdotta in Italia da oltre un decennio la previdenza integrativa, con la devoluzione degli accantonamenti annuali del TFR ai fondi pensione, obbligatoria peraltro per le imprese con oltre 50 dipendenti. Ma la crisi finanziaria del 2008 ha comportato rilevanti perdite nei mercati finanziari dei fondi pensione, il cui costo sociale, in tema di trattamenti pensionistici, è stato addebitato integralmente ai lavoratori.
Il governo Renzi, così come il governo Letta e il governo Monti, non ha mai fatto mistero della propria vocazione antisociale, in ossequio alle direttive dell’Europa della BCE. Infatti la legge di stabilità ha incrementato la pressione fiscale sulla previdenza integrativa, incidendo sulle contribuzioni dei lavoratori e disincentivando gli investimenti nei fondi pensione. Inoltre, prevedendo la corresponsione in busta paga (per ora volontaria) degli accantonamenti annuali del TFR, che vengono devoluti alla previdenza integrativa, non ha fatto che penalizzare ulteriormente la previdenza e quindi le future pensioni, oltre a generare un incremento della tassazione sulle retribuzioni.
Questa politica di smantellamento devastante dello stato sociale, voluta dall’Europa e diligentemente attuata dal governo Renzi, non farà che aggravare la recessione e provocare l’ulteriore impoverimento di larghi strati della popolazione.
Potremmo definire questo governo, così come quelli che lo hanno preceduto dall’avvento dell’euro in poi, come il “governo dell’esproprio” del capitale pubblico, del risparmio dei cittadini, dei diritti sociali dei lavoratori.
Luigi Tedeschi

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